È la componente visionaria l’elemento preponderante dell’arte di Maria Colletti, pittrice di effetti e suggestioni che si emancipano della semplice, talvolta semplicistica logica della vista. Stupisce constatare quanto sia poco diffusa, anche fra gli artisti, la consapevolezza della differenza fra vista e visione, attorno alla quale si è sviluppata gran parte della dialettica che ha fatto da presupposto storico e ideologico della pittura occidentale. Basterebbe, per chiarirsi le idee, chiedere a un cieco se può vedere.
Lo sciocco crederebbe di fare una domanda crudele, scontata nella risposta; ma il cieco, potete starne certi, direbbe che vede, non mediante le registrazioni dei sensori oculari, ma attraverso occhi diversi, quelli della mente, gli stessi con cui vediamo quando immaginiamo, ricordiamo, sogniamo, spesso e volentieri scavalcando la ragione, collegandoci direttamente alla parte più imprevedibile e irrequieta della nostra interiorità, in buona parte ignota a noi stessi. Non è vista, è visione.
Nessuna sorpresa, dunque, che esistano ciechi che praticano non solo la pittura, ma perfino la fotografia, come l’affascinante Evgen Bavcar, impegnato a dimostrare che una disciplina a torto creduta della vista possa essere anche quella delle sue personali visioni. Un prodigo silenzioso, lo sguardo della mente: non abbiamo niente di fronte, ma possiamo vedere ugualmente, anche se in una maniera diversa, più indefinita, senza l’attenzione alla diversità dei particolari a cui ci abitua la vista. È proprio questa indifferenza al particolare, che nella visione finisce per coincidere con la divagazione, il superfluo, a far stringere al massimo la relazione fra forma e contenuto in ciò che a noi si palesa: tutto diventa più concentrato ed essenziale, come se quanto vedessimo fosse l’automatica corrispondenza visuale di un pensiero, un concetto, una fantasia.
Eppure, quei pensieri, concetti, fantasie, non hanno affatto corrispondenza autotematiche, tutto potrebbe essere visualizzabile in maniera diversa, senza regole fisse, in virtù delle nostre diverse esperienze, diverse disposizioni d’animo, diversi riferimenti culturali. Ma a noi, nel momento della visione, sembra diversamente, quel pensiero è proprio quell’immagine, senza altro al di fuori di essa, non potrebbe essere altrimenti; anzi, è l’immagine a essere pensiero, perché se la prima, pur nella sua indefinitezza rispetto alla percezione della vista, rimane comunque circoscrivibile, identificabile, il secondo può anche sfuggirci nella completezza del suo significato, suggerendo piuttosto che dichiarando esplicitamente. Eccolo il punto centrale, chiarito una volta per tutte dalla metafisica di De Chirico, ma ampiamente intuito da una serie sterminata di artisti precedenti, dai bizantini a Cosmè Tura, da Bosch a Radon, da Paolo Uccello a Fussili, solo per dire di alcuni: nella visione è sempre l’immagine a fare il gioco, siamo noi a doverle andare dietro, non viceversa.
Maria colletti è cosciente di tutto ciò, e lo dimostra. Sa che le visioni sono tanto più intriganti quanto più si affidano all’intuizione di un’immagine capace di farsi contenitore di concetti anche molto diversi fra loro, simultaneamente, non pretendendo mai che chi veda la debba pensare come chi propone di vedere. E le intuizioni, insensibili al fatto di poter essere anche meglio assecondate dalla pittura, sono certamente il punto di maggior forza della Colletti: come nel  “ciò che resta”, fra William Blake e Dalì nel fornire una corporeità alternativa a quella straripante del Cristo crocifisso, un’ombra, una traccia di spirito, come per certi versi capita anche a Carlo Mattioli, ma anche un’assenza che lacera, come per una fisicità agognata e perduta, concetto riscontrabile anche in un misterioso San Sebastiano fattosi giglio trafitto, anch’esso rivelatore di una religiosità profonda, ma non esentata dal beneficio del dubbio.
Sarà davvero questa la lettura giusta di quelle opere? Non è così determinante, più importante aver potuto associare quelle immagini, quelle intuizioni, a certi significati, trovando convincente la relazione. La certezza della verità è altra cosa, che esula probabilmente dall’arte: anche perché se fosse espressa in maniera comprensibile, come diceva proprio Blake, non verrebbe mai creduta.

VITTORIO SGARBI


 

Aurelio-Pes_InchiestaSicilia

Maria colletti è pittrice per vocazione. Come altri artisti, che nella vita erano ingegneri, architetti o avvocati, e qui ricordo Stendhal, Flaubert e Gauguin; la colletti è commercialista: ma è poi con i quadri che lotta con tutte le essenze delle sue forze interiori, e vengono fuori immagini inquietanti, come il giglio trafitto da una freccia, che dolcemente Decombe tra palude infestata a muro opaco, o come paesaggi infuocati, con barche naviganti e uccelli in volo; o come improvvise memorie di opere del passato, qui trascritte e tornate a vita nuova. È il caso di una madonna con bambino, restituita in una pienezza di forma transumante.
Paesaggi e nature morte trasmettono agli astanti animule di fiori, piante e paesaggi, ricordi variopinti dell’infanzia, costruita intorno ai “veri paradisi degli amori infantili”, di cui parla Baudelaire nei suoi “fleurs aux mal”.
Tutto ciò ci dona il piacere d’una pittura che soprattutto mantiene la fragranza d’un distillato di esperienze e di effluvi che soltanto negli spazi interiori e nel silenzio trovano l’intima ragione di consistere.

AURELIO PES


 

 

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